Fonte: Wine Winery
“Il meglio del vivere sta in un lavoro che piace e in un amore felice” (Umberto Saba). Quella del “Quojane di Serramarrocco” non è soltanto la storia di un vino, ma il racconto di una scelta di vita, la testimonianza di un legame profondo con la Sicilia e la sua terra senza eguali. Marco di Serramarrocco, discendente diretto di quel Don Giovanni Antonio Marrocco y Orioles che nel 1624 ebbe in dono dal re Filippo IV di Spagna la Baronia e il feudo reale che ancora oggi conosciamo per le sue vigne, quell’amore e quel lavoro li ha sentiti profondamente. A tal punto da decidere di abbandonare una sicura carriera nei Lloids di Londra per scrivere una nuova pagina nella storia della sua famiglia. “Il vino è la mia isteria – trovo scritto in un’intervista a Gambero Rosso di qualche anno fa – quello che voglio mettere nella bottiglia è la somma dei desideri e delle ferite, dei ricordi e della realtà” (Marco di Serramarrocco).
Con un intento del genere è facile capire come parlare del Quojane, così come di un qualunque altro vino della Serramarrocco, è affondare a piene mani nell’orgoglio e nella tenace volontà di una stirpe di sangue blu, capace di portare avanti un progetto vocato all’eccellenza e alla dedizione totali.
Siamo sulla costa occidentale dell’isola, Erice è a un tiro di schioppo, poco più. I ruderi del baglio di Serramarrocco dominano l’intera azienda, la cui vista mozzafiato si spinge fino alle Egadi e al bosco della Montagna Grande. Qui i venti marini soffiano con sagace persistenza, mitigando il clima e favorendo un terroir in grado di dar vita a prodotti unici.
Come per il Quojane Bianco Terre siciliane IGP 2016, uno zibibbo secco in purezza davvero particolare. Il nome del vino è la trasposizione dialettale del termine “poiana”, il rapace che nidifica ogni anno fra i filari della vigna detta, appunto, delle Quojane.
Già il colore ci sorprende col suo giallo paglierino carico dagli intensi riflessi dorati e sfumature color rame. Un vino dalla consistenza piena e generosa, limpido, trasparente e piacevolmente scorrevole.
I profumi che sprigiona sono invece molteplici e complessi, difficile credere che possano essere contenuti tutti in una bordolese da 0,75! C’è sicuramente l’impronta dello zibibbo, vitigno aromatico, qui gestito molto bene in maniera tale da renderlo composto e gradevole, senza eccessive ridondanze olfattive o sbavature di qualunque tipo. C’è l’agrume, forte e pieno coi suoi fiori di zagara, c’è la frutta candita, ci sono note lampanti di miele, pesche noce e un dolce floreale di gelsomino. Chiude il balsamo della mentuccia che rinfresca e conforta le narici.
“…io mi posseggo e piego alle tue acque a bermi il cielo, fuga soave d’alberi e d’abissi” (Autunno, Salvatore Quasimodo). Sul palato scopriamo un vino bianco dalla bella struttura generale, di corpo, caldo e morbido. Tornano gli aromi percepiti al naso, adesso fusi insieme e sostenuti da un’acidità misurata così come da una mineralità pimpante e vivace. Il finale chiude lungo con note di mandorla, il tutto nel segno della classe e della finezza allo stato puro.
Uno zibibbo secco di difficile imitazione, da accompagnare a piatti di pesce grigliato o crostacei, ma soprattutto alla lettura di di versi indimenticabili come quelli di Umberto Saba o Salvatore Quasimodo. Magari all’ombra di un palmizio di fronte a uno di quei tramonti indimenticabili che solo la Sicilia è in grado di regalare, e nelle orecchie Rain di Ryuchi Sakamoto…
Luigi Marchioni